La Legge 194/78 sta letteralmente “affogando” nell’obiezione di coscienza, che raggiunge
percentuali inverosimili. Abbiamo quindi ritenuto utile andare a vedere come ed in che modo si sia
potuti arrivare, in questi anni, alla situazione attuale.
Come tutti sappiamo la legge 194/78 rappresenta, e non potrebbe essere diversamente, un punto di
equilibrio tra la tutela del nascituro e il diritto alla salute della donna, faticosamente ricercato e
trovato nella puntuale definizione sia delle condizioni necessarie per l’accesso alle tecniche di ivg,
che delle procedure idonee ad attestare l’effettiva sussistenza di quelle condizioni.
Nell’individuare quel punto di equilibrio il legislatore seguì l’impostazione indicata dalla sentenza
della Corte Costituzionale n. 27/75, che aveva dichiarato illegittimo l’art. 546 c.p., che puniva il
delitto di procurato aborto, nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere
interrotta quando l’ulteriore gestazione implicasse danno o pericolo grave per la salute della madre
(si intende sempre anche quella psichica). In quella sentenza la Corte, nel riconoscere tutela
costituzionale, “sia pure con le caratteristiche sue proprie”, anche al concepito (art. 31, comma 2 e 2
Cost.), aveva concluso che, in ogni caso, non vi è equivalenza tra il diritto alla vita e alla salute di
chi è già persona (la donna) e quello di chi persona deve ancora diventare.
Questa impostazione fu trasferita nella Legge 194, che è fondata sul principio di
autodeterminazione della donna, secondo un procedimento decisionale articolato, che valorizza (o
dovrebbe..) il ruolo informativo e di assistenza delle strutture statali e da cui è escluso il padre del
concepito.
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